21 marzo 2017
ENZO BIANCHI
Un tempo pregare era come respirare. Oggi che a livello spirituale l’ossigeno si va rarefacendo, chiamare la preghiera «il respiro dell’anima», come ha fatto Papa Francesco (14 dicembre 2014), che senso ha e che sforzo richiede?
Le nuove generazioni forse non saprebbero più usare questa espressione, anche se pregano lo stesso. La preghiera oggi è percepita in modo molto diverso da un tempo; è un fermarsi, un sostare, un mettersi a pensare contemplando, cercando soprattutto di ascoltare la voce di Dio che parla al cuore. Certo la preghiera resta il respiro dell’anima e della vita interiore; come potrebbe essere diversamente? Ma l’antropologia è mutata, il mondo è disincantato, sono cambiati lo stile e la forma della preghiera che esisteva prima di quest’età postmoderna.
Con il cambiare dei tempi, la preghiera resta anche l’espressione innata del senso religioso della vita. «Non so se credo o non credo: so che prego» diceva lo scrittore spagnolo Salvador de Madariaga. Ma se così è, quale potrebbe essere l’ipotetica preghiera di un ateo?
Oggi sono parecchi a dire: «Non so neanche se credo in un Dio personale, però prego», nel senso che dedicano del tempo alla contemplazione, alla meditazione, all’abitare con se stessi. È tipico dell’uomo, in tutte le tradizioni culturali, spirituali e religiose, interrogarsi, porsi le domande fondamentali cercando una risposta. Molti atei mi confidano che nelle profondità di se stessi ascoltano la voce della propria coscienza, meditano, leggono testi umanistici e poi con essi cercano di rispondere alle domande brucianti dell’esistenza. Questa attività è certamente simile alla preghiera, ma quella cristiana ha una sua particolarità, è differente da tutte le altre.
Qual è, allora, lo specifico cristiano della preghiera?
Lo specifico cristiano è che Dio ci precede, ci cerca, ci parla. La preghiera cristiana nasce sempre come ascolto! Questo vale sia nel giudaismo sia nel cristianesimo. Dio va innanzitutto ascoltato! Lo straordinario della nostra fede è un Dio che ci parla (cfr. Deuteronomio 4, 32-33), quindi il primo passo della preghiera cristiana è mettersi in ascolto. Dall’ascolto nasce la fede (cfr. Romani 1, 17), nasce la conoscenza di Dio, nasce la relazione con Lui. Dall’ascolto nascono le parole che possiamo ridire a Lui.
Perciò Papa Francesco dice: «Pregare è parlare con Dio» (3 aprile 2014). In realtà l’uomo si è sempre inginocchiato davanti a Qualcuno che lo trascende. Ma non è follia rivolgersi a una Presenza non riscontrabile con i parametri umani?
Può esserlo, ma io più che con discorsi teorici preferisco rispondere sulla base dell’esperienza personale. Da piccolo, prima di andare a dormire, mia madre mi faceva inginocchiare in fondo al letto e con parole semplici mi faceva pregare chiedendo al Signore la sua benedizione, la salute dei nostri cari, l’invio dello Spirito santo, e poi mi invitava a manifestargli riconoscenza e lode. Sono stato perciò abituato a parlare con una Presenza invisibile. D’altronde, ci sono realtà invisibili alle quali crediamo. Si pensi al vento: non ha volto, né lo si vede, eppure è una presenza che tutti avvertiamo e alla quale crediamo. Nello spazio della fede Dio è una presenza non discernibile, non visibile, eppure non solo possiamo credere a lui, ma possiamo anche parlare a lui, abbandonarci a lui, attendere il dono del suo Spirito.
Pregare non è, però, lo stesso in tutte le religioni; le differenze sono anche a livello pratico. Per esempio, nell’islam, il fedele è tenuto a pregare cinque volte al giorno, mentre nel cristianesimo non esiste una struttura quotidiana così rigida. È un pregio o un difetto?
È vero, però certi appuntamenti occorre darseli. La preghiera del mattino e della sera (la Liturgia delle Ore) dovrebbero essere praticate non solo dai monaci, ma da tutti. Basterebbe anche un pensiero, visto che il cristianesimo predilige lo stare alla presenza di Dio, il pensare davanti a Dio, l’ascoltare la Sua voce, l’esercitarsi a vedere gli uomini, gli eventi, le cose, con gli occhi di Dio. Questa modalità di preghiera, che si chiama contemplazione, possiamo adoperarla in ogni momento, in tutte le situazioni. Si potrebbe dire con san Basilio che la preghiera cristiana è «la percezione di Dio», ovvero l’avvertire che Dio è con noi, ci guarda e costantemente riversa su di noi il suo amore. È questo l’essenziale della preghiera cristiana, e di certo non ha bisogno di un orario!
Tutto questo purché pregando non sprechiamo parole «come fanno i pagani» (cfr. Matteo 6, 7), ci avverte Gesù!
È vero, esiste il rischio di scivolare nella preghiera pagana, che Lucrezio chiamava con molta ironia «l’affaticamento degli dèi a forza di parole»! Però questo rischio lo corrono anche i cristiani che pensano di convincere Dio secondo i propri desideri, di piegarlo alle proprie volontà, moltiplicando parole. Addirittura c’è il rischio che certe preghiere diventino pettegolezzo spirituale davanti a Dio. No! Il primato della preghiera va all’ascolto. Bastano poche parole dette con discrezione, come ci ha insegnato Gesù nel Padre Nostro. Poche domande, quelle essenziali: pane e misericordia. Di nient’altro abbiamo bisogno!
Purtroppo è facile sprecare parole nell’epoca della digitalizzazione. Oggi con i social media si prega, si recita il rosario, si legge il breviario, si condividono beni spirituali. A quali condizioni l’intesa tra l’elettronica e la preghiera può funzionare?
I media non vanno demonizzati, possono servire anche alla preghiera. Io stesso in certi momenti di solitudine, o nella malattia, mi sono accorto che poter usufruire, ad esempio, del rosario è d’aiuto. Però poi la preghiera deve sgorgare dalla vita; non devono essere i media a dettarci la preghiera, ma la nostra vita di fede, la nostra vita quotidiana.
Usiamo i media, purché siamo attenti a non vivere di parole, di sensazioni, a non pretendere che la preghiera diventi uno spettacolo. La preghiera che raccomanda Gesù è quella silenziosa: «Prega nel segreto e il Padre che è nel segreto, ti risponderà» (cfr. Matteo 6, 6).
Papa Francesco dice pure: «La preghiera è la batteria del cristiano» (7 giugno 2016). In che senso va presa questa metafora?
Nel senso che la preghiera è fonte di energia, di forza, scende in profondità, scava dentro, ed è l’arma migliore che abbiamo per affrontare la vita, le tentazioni, le prove. Non può esserci vita cristiana senza preghiera! Attenzione, però, a non fare della preghiera una forza magica: essa resta sempre un dono gratuito che ci fa lo Spirito santo. È la grazia di Dio che rinnova la nostra preghiera, non noi che con la preghiera suscitiamo la grazia di Dio.
Per questo il Papa mette in guardia: «La preghiera non è una bacchetta magica» (25 maggio 2016). Però, se dalla preghiera non bisogna aspettarsi il miracolo, è lecito lamentarsi della mancanza del riscontro positivo?
Il fatto è che sovente i nostri desideri non coincidono con quello che il Signore vuole per il nostro bene. Dio rispetta la libertà dell’essere umano e non forza la sua situazione di creatura che vive in questo mondo. Ma Gesù ci ha detto che Dio risponde mandandoci sempre il suo Spirito, se glielo chiediamo (cfr. Luca 11, 13). Può allora accadere di sentirci prostrati non essendo esauditi, e nondimeno Dio realizza le sue promesse.
Infine che dire della liturgia, che il concilio Vaticano II chiama «Culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù»? Cosa manca ancora alla sua riforma?
La liturgia è il grembo in cui si è iniziati alla preghiera; senza liturgia, la preghiera personale tende a essere magica e non rispondente alla fede cristiana. Proprio perché la liturgia chiama all’ascolto della Parola di Dio e poi al dono del Corpo e Sangue del Signore, è veramente il seno in cui la preghiera individuale può crescere. Allo stesso tempo la liturgia è anche il culmine della preghiera, la quale dovrebbe tendere, nel corso della settimana, all’Eucaristia domenicale, che è la preghiera delle preghiere. Certo, come non mancano le difficoltà nella preghiera personale, così ce ne sono anche nella liturgia. C’è stata una Riforma dopo il concilio Vaticano II e ci sono ancora delle resistenze a questa Riforma. Ma diciamo la verità: ormai sono passati più di cinquant’anni, il mondo è cambiato tantissimo, siamo all’interno di una nuova antropologia, il linguaggio è completamente differente e stiamo ancora a chiederci se non sia il caso di arrivare — con tutta la prudenza possibile — a un cambio dei linguaggi, perché le nuove generazioni sono completamente estranee a quelli tradizionali? Senza la Riforma la liturgia rischia di essere il luogo dove la Chiesa più deperisce, perché le nuove generazioni, non attratte dalle formule e dai riti, partecipano sempre meno alla liturgia, che invece è assolutamente necessaria.